martedì 2 giugno 2020

Martin Heidegger

Filosofo tedesco (Messkirch 1889-Friburgo in Brisgovia 1976). Studiò a Friburgo, dove ebbe come docenti H. Rickert ed E. Husserl e si laureò nel 1914. Nel 1916 fu nominato libero docente e dal 1923 al 1927 insegnò a Marburgo. Nel 1928 ottenne la cattedra di Husserl a Friburgo e nel 1933 fu per alcuni mesi rettore di quell'università. In quel tempo aderì al partito nazista e scrisse a favore del regime, ma poi si chiuse in un silenzioso riserbo. Nel 1945 venne epurato dall'insegnamento per i suoi trascorsi nazisti, ma nel 1952 vi fu riammesso come “professore emerito”. Nel decorso del suo pensiero Heidegger partì da un'adesione alla fenomenologia husserliana, ma se ne staccò nel 1927 proseguendo la propria ricerca filosofica in campo esistenzialistico sulla falsariga di una metafisica essenzialmente neoplatonica. A questo primo periodo del suo pensiero, gli studiosi ne fanno seguire un secondo che parte dalla conferenza romana su Hölderlin del 1936.

La ricerca esistenziale

Nella prima fase della sua filosofia (Sein und Zeit, 1927; Essere e Tempo), intento di Heidegger è di ritrovare la via per porre la domanda “Che cosa è l'essere?”. Per rispondere a questa domanda occorre chiedersi, oltre a che cosa sia ciò che si domanda e quale sia il risultato del domandare, anche chi sia colui che è interrogato. Heidegger dice che l'ente privilegiato cui la domanda dev'essere rivolta è quello per il quale l'intendere, il comprendere, il porsi la questione dell'accesso all'essere e al domandare stesso costituiscono un proprio e peculiare modo d'essere. Questo ente è l'esserci (Dasein), l'uomo stesso che non è solo un ente fra gli altri, ma nella sua stessa esistenza ha un costitutivo rapporto di comprensione per l'essere, che fonda i contenuti della sua esperienza e fa sì che essi siano. Il rapporto di comprensione dell'essere non comporta un particolare e specifico atteggiamento teoretico, ma inerisce all'esserci stesso nel suo conquistare e scegliere le possibilità, che nella sua concreta vicenda di singolo gli si propongono, di essere o non essere se stesso: esso è quindi anzitutto comprensione esistentiva od ontica, in cui solo si può radicare la penetrazione esistenziale od ontologica: nella nostra esistenza singola, cioè, sono innanzitutto radicate quelle strutture dell'esserci che la filosofia ha il compito di analizzare e di portare dal piano della comprensione immediata, vissuta, a quello della comprensione tematizzata e riflessa. 

L'esserci ha come sua determinazione esistenziale l'essere-nel-mondo: la relazione con gli altri enti è possibile solo perché il rivolgersi a essi non è puramente accidentale ed estrinseco (come se l'uomo, oltre a essere in sé, avesse anche un mondo), ma appartiene alla struttura esistenziale dell'esserci stesso. L'essere delle cose che incontriamo nel mondo si riduce alla loro utilizzabilità. L'esserci si prende cura di quanto gli sopravviene, e tale prendersi cura è il nostro modo proprio di coesistere con ogni altro ente nel nostro essere-nel-mondo. Anche gli altri esserci si incontrano con noi nel nostro prender cura: ma noi possiamo prenderci cura di essi ponendoci al loro posto, sottraendo loro il proprio prendersi cura e quindi dominandoli e rendendoli dipendenti da noi, oppure aiutandoli nel loro prendersi cura, affinché divengano trasparenti a se stessi e liberi nella propria cura. 

Nel primo caso si avrà una coesistenza inautentica, nel secondo caso una autentica. Nella coesistenza inautentica, gli altri non appaiono come tali, nella loro autentica individuazione; tutto si livella in un mondo impersonale, dove il chi si trasforma nel si (man): si dice, si fa, si giudica come fanno gli altri, e ci si distingue come ci si può distinguere, nella mediocrità della quotidianità. La deiezione, l'essere gettati nel dominio del si, non è da intendersi come una caduta da un più alto stato primitivo, ma è una determinazione esistenziale dell'esserci stesso, che nella sua fattualità si allontana sempre più, come in un vortice, dal progettare e prendersi cura autentico. Solo con il vivere per la morte ci si sottrae alla banalità quotidiana per raggiungere l'esistenza autentica. Anche nella quotidianità sappiamo che si muore, ma questo si equivale a nessuno: la morte è vista come un “caso” che appartiene a tutti e a nessuno e il coraggio di accettare l'angoscia (come sentimento che rivela la nullità dell'esistenza) è continuamente distolto e soffocato dal si quotidiano. La voce della coscienza (Gewissen) richiama però l'uomo alla morte come alla sua possibilità più propria e insuperabile, che lo riguarda direttamente al di fuori di ogni impersonalità e gli apre il suo essere. La progettazione dell'esistenza come vivere per la morte lo colloca di fronte al nulla della sua esistenza e lo libera dalla cura. Ma questo nulla non è una privazione di qualcosa: esso è la stessa finitezza costitutiva dell'esserci che si presenta come tale e si definisce da sola: in essa l'essere come tale si attua e si rivela. A questo punto si riallaccia la successiva speculazione heideggeriana. Secondo una intera corrente di interpretazioni, con l'affermazione della nullità costitutiva dell'esserci la ricerca di un'ontologia giungerebbe a un punto morto e dovrebbe o risolversi a un abbandono della ricerca sull'essere come tale, o decidere di eliminare il punto di partenza “esistenziale” per rivolgersi direttamente all'essere. 

È questa la “svolta” (Kehre) che segnerebbe il passaggio dal primo al secondo Heidegger, anche se egli ne nega l'esistenza, affermando che quanto da lui è esposto nella prima fase del suo pensiero rappresenta l'accesso necessario a quanto è detto nella seconda, mentre quest'ultimo costituisce il fondamento di possibilità di quello.

La verità dell'essere


La rivelazione dell'essere e la sua trascendenza agli enti nella loro totalità costituiscono la tematica dell'ultimo Heidegger (Hölderlin und das Wesen der Dichtung, 1937; Hölderlin e l'essenza della poesia; Platons Lehre von der Wahrheit, 1940-47; La dottrina platonica della verità). Un tale concetto di essere come manifestazione era già stato proprio dei presocratici, ma la successiva metafisica, a partire da Platone, l'ha dissolto fondando l'essere sulla verità e facendo di questa una giusta visione dell'ente. La storia della metafisica è un continuo procedere verso l'identificazione completa dell'essere con il valore, con il percepire (Leibniz) e infine con la nietzschiana volontà di potenza (Nietzsche, 1961). Compito dell'ontologia è quindi una “distruzione della metafisica”, arrivata ormai al suo estremo compimento. Ma la storia stessa della metafisica non è una deviazione accidentale: come occultamento dell'essere, essa appartiene all'essere stesso, che è il manifestarsi. Similmente, il disvelamento dell'essere non può nascere da un'iniziativa dell'uomo, ma è iniziativa dell'essere stesso. L'uomo è il custode di questo svelarsi dell'essere: esso è gettato dall'essere, come pro-getto, in un'illuminazione che lo conserva nella vicinanza dell'essere stesso (Brief über den Humanismus, 1949; Lettera sull'umanesimo). All'essere l'uomo deve affidarsi, ascoltarlo e questo ascolto avviene attraverso il linguaggio, particolarmente quello poetico, che è il luogo primario della manifestazione dell'essere. 

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